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CULTURA: FUTURO URBANO, IDENTITA' TERRITORIALE di Domenico Gimigliano

Posted On Sabato, 22 Maggio 2021 01:26

La cultura, il futuro urbano”. È il titolo del Rapporto Globale UNESCO alla III Conferenza ONU del programma “Habitat”, che citavo qualche tempo fa, su questo stesso sito, evidenziando l’importanza data al patrimonio immateriale culturale di una comunità e, soprattutto, al suo processo di adattamento al contesto, “costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia” che “dà loro un senso d’identità e di continuità”

Voglio tornare sul tema, anche stavolta per trovare a Cosenza i segni di questo legame forte tra futuro e passato.

Il riferimento è ancora a Carlo Levi, che titolava “Il futuro ha un cuore antico” il libro in cui narrava di un viaggio in Unione Sovietica, in un mondo allo stesso tempo antico e attuale.

Ma non è tanto un riferimento, non so se i due mondi siano paragonabili, anzi so che non lo sono. È che piuttosto, come dire, chiedo “in prestito” il suo titolo, perché lo ritengo particolarmente efficace ad esprimere quella che secondo me è la “conditio sine qua non” per lo sviluppo futuro di Cosenza.

L’ho detto e lo ripeto: il recupero dei borghi storici, così come dei loro ruoli, non può prescindere dal “senso d’identità e di continuità”, non è possibile inventarsene uno nuovo, non riuscirebbe.

Allo stesso modo sono convinto che senza il suo borgo storico Cosenza rimarrebbe un’anonima e insignificante area periferica del Paese.

Dunque: Il futuro ha un cuore antico anche per Cosenza.

Il senso d’identità di Cosenza, il suo cuore antico, è certamente la cultura, nella sua accezione onnicomprensiva di “patrimonio culturale immateriale”.

Ed è sull’identità che oggi voglio soffermarmi, attraverso alcuni esempi presi tra i tanti che caratterizzano la mia città.

Cosenza ha avuto un suo Rinascimento, in cui fiorirono gli studiosi, letterati, filosofi, astronomi, economisti anche, e via dicendo (qualche citazione? Bernardino Telesio, di Cosenza, il “primo degli uomini nuovi”, iniziatore della nuova filosofia della natura rinascimentale; Aulo Giano Parrasio, di Figline, filosofo umanista e scrittore, fondatore dell’Accademia Cosentina; Antonio Serra, di Dipignano, il primo scrittore di economia politica in Italia).

Era chiamata allora, nel cinquecento e nei secoli successivi, con l’efficace e nemmeno tanto presuntuoso appellativo di “Atene della Calabria”. Ma voi non ditelo. Ricordate? L’ho già scritto, siamo stati condannati alla damnatio memoriae.

Fiorì in quel periodo l’architettura della città e l’impianto urbano come lo vediamo oggi, “complesso di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale”, ovvero “bellezza panoramica considerata come quadro naturale”, fate voi: è la motivazione (contenuta nell’articolo 1 della legge del 1939 sulle bellezze naturali) dei due distinti Decreti Ministeriali con i quali il Centro Storico di Cosenza e i suoi dintorni sono stati dichiarati di notevole interesse pubblico, nella seconda metà del secolo scorso.

Una “bellezza naturale” come tale regolamentata: stiamo parlando di “beni culturali”.

In termini UNESCO, patrimonio culturale materiale” della città. Le evidenze e i luoghi sono lì, e sono conosciuti (tranne forse che dai cosentini, perlomeno dai più, ma che volete farci).

Ma Cosenza ha pure un forte, fortissimo carattere identitario nel suo patrimonio immateriale” trasmesso di generazione in generazione: le prassi e le tradizioni che la caratterizzano altrettanto bene che le manifestazioni dell’intelletto.

Qui però la precisazione bisogna pur farla.

Quello delle tradizioni e della identità, a Cosenza più che altrove, è un patrimonio “territoriale”, nel senso che appartiene a un territorio più che a una città.

Lo è dai tempi dell’ager bruttius e lo è stato dopo, con le invasioni saracene e i Casali, con i ducati bizantini e i normanni, con la Calabria Citeriore. Magari ne parleremo un’altra volta, ma qui bisogna almeno dirlo.

Questa caratteristica ha dato nascita e forma ad una nuova e diversa città nel secondo dopoguerra, con la ricostruzione postbellica e col fenomeno dell’urbanesimo, che in un trentennio ha trasformato una città di meno di 40.000 abitanti (la Cosenza degli anni trenta) in una di 106.801 abitanti (censimento 1981).

In un altro trentennio o poco più, il nuovo sviluppo urbano a nord ha assorbito nelle adiacenti pianure di Rende quasi il 40% di popolazione (tanta quanto era quella dell’intera città prebellica), riducendo gli abitanti di Cosenza agli attuali 68.000 circa e il suo Centro Storico a periferia abbandonata. Tanto per dire identità territoriale.

L’identità cosentina, già storicamente legata al territorio, per così dire, si fuse con quella dei paesi vicini. Ma non andò perduta: anziché impoverire, è andata vieppiù arricchendosi. A cominciare dal dialetto, dalla “parlata”.

Ma anche solo per rimanere nel più semplice e conosciuto ambito agroalimentare: a “vrucculi ‘i rapa e sazizzi”, ara “nchiàmpara”, aru “pani i casa”, ari “pomodori ‘i Cusenza” si sono aggiunti ‘a “cuccìa”, i “buccunotti”, i “patati d’a Sila”, i vini, i mille modi di vivere la tradizione del maiale. E molto altro ancora.

Un’immagine mi pare definisca più di ogni altra cosa questa identificazione di Cosenza con il suo territorio.

La richiama in una battuta un mio carissimo amico, Giacinto Marra, cofondatore a Rovito e stimolatore del Circolo di Cultura Tommaso Cornelio (a proposito, era un medico nato a Rovito ed è stato uno dei matematici e filosofi italiani che fiorirono nell’Atene della Calabria. La Treccani lo definisce “uno dei protagonisti della rivoluzione scientifica del XVII secolo nell’area meridionale”. (Ma voi non ditelo, mi raccomando, non è che mo’ ci mettiamo a parlare pure di rivoluzione scientifica nel mezzogiorno).

Tra l’altro, a Rovito (che lui non ama classificare “fascia presilana” forse perché, sospetto, si sentirebbe come “allontanato” da Cosenza) ha aperto una biblioteca e punto di lettura, come mi dice, assai ben frequentato: soprattutto giovani.

Anche il Circolo e la sua biblioteca andrebbero citati tra quegli esempi di identità con un cuore antico che guardano al futuro.

Vogliamo dire che per Cosenza sarebbe un bell’esempio di identità territoriale, come lo fu in passato Tommaso Cornelio? Purché non lo si faccia sapere in giro.

Ho divagato? Forse, ma la battuta del mio amico Giacinto vi dà un ulteriore efficace elemento dell’identità cosentina come identità territoriale (bè, sapete, l’efficacia di un titolo, l’efficacia di un appellativo, perché non l’efficacia di una battuta?):

Da quando non si partorisce più a casa con la levatrice, tutti gli abitanti del circondario di Cosenza sono nati a Cosenza”.

Una curiosità, a proposito di territorio e di area urbana: nel cerchio con raggio che va da Piazza Valdesi all’Università (circa 8 km in linea d’aria) sono compresi più o meno venticinque comuni.

Identità territoriale è pure quella di “Rota, Prodotti rurali della Sila”. Sulla vetrina campeggia la scritta “Dalla Sila, alla Sila, per la Sila – Un tesoro da condividere”. In trasparenza si intravede un bancone ricco di prelibatezze.

Siamo in via Ettore Loizzo, una traversa dell’isola pedonale di Corso Mazzini. Vi troviamo un pezzo “di economia circolare, in cui il tempo è ritrovato e si lasciano sedimentare le idee raccolte per generarne di nuove”: parole di Umberto Rota.

Umberto Rota – si legge sul retro di una bellissima fotografia – ci crede: sceglie Giovanna, Domenico, Gianluca, Giulio quali testimoni e artefici. Ogni giorno a contatto con la natura, si sporcano le mani di terra e di polvere delle pietre, portano a casa l’odore dei boschi e delle greggi, offrono i frutti del loro lavoro a palati che si scoprono nostalgici di antichi sapori, quasi introvabili”.

Antichi sapori quasi introvabili: è su questo che Umberto Rota investe per il futuro della sua azienda, un pezzo di Sila al centro di Cosenza. Io dico che è anche un pezzo del futuro di Cosenza

Anche lui ha aperto da poco. La speranza c’è, le prospettive pure, è un segno della possibile ormai vicina ripresa.

La sua brochure è, come la fotografia, bellissima. “L’ingrediente segreto – vi trovo scritto – è lo sguardo di chi sa guardare”.

Chi invece non ha aperto da poco è quello che a Cosenza è quasi un’istituzione: il più che bisecolare “Gran Caffè Renzelli”, un tempo “Caffè Gallicchio”, il caffè storico della città.

Due salette, la rossa e la verde, dove si dava appuntamento una Cosenza di cultura, di lettere e di arti, sull’onda e nel periodo in cui, a Napoli, era il grande momento dei caffè letterari”. È Alessandro Renzelli, il compianto “Sasà”, che lo scrive nel 2003, nel suo volumetto “I due secoli del Gran Caffè Renzelli”, edito da “Le nuvole”.

Era il 17 gennaio 1803 quando Pietro Zampella, “della capitale di Napoli” acquista “una bottega di sorbetto, caffè, dolci, rosoli ed altro” per 700 ducati “mutuati da don Giuseppe de Simone “gratis et senza veruno interesse”.

La “bottega di sorbetto” attraversò i secoli, vide passare la storia, patrioti e martiri cosentini vi si riunirono, rifocillò i fratelli Bandiera, che “i gendarmi borboni fecero sostare per aver ristoro”.

Nicola Misasi, scrittore e giornalista (Benedetto Croce ebbe a dire “Le Calabrie ebbero il loro pittore in Nicola Misasi”) nel 1900 era suo assiduo cliente “mattutino”.

E poi Luigi Fera, figura di primo piano nella vita culturale di fine ottocento, Nicola Serra, (ministro della guerra che “nel corso della guerra di Africa dava lettura dei bollettini bellici ai clienti del gran caffè”), Tommaso Arnoni, primo podestà del fascismo. E via dicendo fino ai nostri giorni, ospitando sempre l’aristocrazia cosentina.

Permettetemi una civetteria: anch’io lo frequento, ma mica perché sono come loro.

Forse sarà per respirare un po’ di quell’aria, in quegli ambienti e in quel contesto.

Domenico Gimigliano