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A cura di Giuseppe Giraldi

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DAMNATIO MEMORIAE di Domenico Gimigliano

Posted On Venerdì, 23 Aprile 2021 19:47

La Calabria è irrimediabilmente perduta, dice Augias. Quell’altro dice che i meridionali sono inferiori. Quell’altra si meraviglia del fatto che a Napoli sia stato raggiunto un risultato d’eccellenza nella ricerca sul Covid, come se questo fosse costituzionalmente impossibile nel Meridione (ma come si permette Napoli?). 

Accozzaglia. Branco. Magari avranno pure ragione, ma loro non lo sanno, perché non parlano con cognizione di causa: è Calabria, perché affannarsi a capire, non vale la pena di approfondire.

La Calabria fu terra di civiltà, anzi fu faro di civiltà, e per questo doveva essere punita e per questo fu punita, e fu sempre per questo che la condanna fu: Damnatio memoriae.

Ridotta a provincia, geograficamente centrale nel “mare nostrum” eppur lontana come se fosse ai confini del mondo, in un impero che “la” occupò ma non se ne occupò (se non per il legno e la pece che ne poteva ricavare o la ricompensa in terre ai legionari a fine servizio), passò attraverso i secoli e le vicende umane ricevendone solo i contraccolpi.

Durante i secoli bui fu rifugio della parte restante di quell’impero che l’aveva così ridotta e, con i monaci basiliani, fu luogo di costruzione e conservazione della memoria.

Poi, con i normanni, sperò nella rinascita. Ma la storia non lo consentiva, e allora fu ricacciata nella Damnatio.

Tornò il dominio straniero, Franza o Spagna purché si magna.

Il feudalesimo la fiaccò, e da queste parti fu eccezionalmente longevo, sotto il nome più pudico di latifondismo, ma vieppiù rinforzato, ancora fino all’altro giorno.

Ma, soprattutto, flagellata e respinta sulle colline e nelle aree interne da cinque secoli di invasioni saracene che nessuno, né Franza né Spagna, né papa né imperatore si curò di contrastare e nemmeno di denunciare. E perché qualcuno avrebbe dovuto? Era solo la Calabria.

E tuttavia vennero i filosofi, gli astronomi, gli economisti, i letterati e gli artisti.

Poi, dopo gli spagnoli e forse proprio per questo, vennero i Borbone e il pugno, ohibò, fu un po’ meno duro. Sempre dominio fu, intendiamoci, ma almeno fu autarchico, e i calabresi cacciarono un po’ di naso fuori di casa: l’industria del bergamotto, quella della ginestra, le acciaierie, la seta assursero a valore internazionale.

Ci fu pure l’industria a carattere familiare, tanto che gli addetti all’industria nel Mezzogiorno (anche nella sperduta Calabria, certo) prima dell’Unità erano il 36%, più che nel resto d’Italia che non arrivava a 30. E il bello è che non c’era nemmeno un errore, come facevi a divulgarlo?

Damnatio memoriae.

Poi vennero i Piemontesi, e fu colonizzazione. A colonizzare la Calabria fu quella stessa Italia a cui essa aveva dato il nome. E insieme nacque e prosperò l’emigrazione, massiccia come un esodo. Dei lavoratori, dei capitali e anche delle industrie.

E i calabresi? I calabresi dovettero, attraverso i millenni, ingegnarsi a sopravvivere “nonostante” lo Stato. È vero, sono colpevoli: non hanno saputo fare uno Stato, e lo Stato si è vendicato.

E quando lo Stato alla fine divenne più nemico, allora sorse e prosperò la ‘ndrangheta: visto che per i Piemontesi erano tutti briganti o al massimo manutengoli, le botteghe non le avevano più, le terre nemmeno, tanto valeva allora formare un antistato, dapprima “anti” di uno Stato nemico, poi sempre più, prendendoci gusto, sostitutivo di uno Stato assente.

Fu ed è un pugno di calabresi, la ‘ndrangheta, così come si addice a qualunque forma di potere, e questa non può fare eccezione. Eppure, nell’immaginario collettivo, ora come allora, fu come se quel pugno assorbisse tutti nella stessa squallida, malefica e non scrollabile feccia: calabresi? tutti ‘ndranghetisti (puoi chiedere a Lombroso se vuoi, ma può andare bene anche Augias).

E lo Stato? Così duramente colpito, poveretto, nel bilancio? Dapprima si è preso i capitali e le industrie (Pietrarsa, Bivongi, Castellammare …….). Ma poi, alla fine, quando le industrie da spostare sono finite, che doveva fare? Tagliare tribunali, magistrati e cancellieri, insieme a medici e ospedali? E togliere anche la medicina, magari cominciando da quella territoriale?

Sì!

Lo sanno anche le pietre, dai, lo Stato deve rientrare nelle spese, mica può pensare a far scrollare la feccia dalle spalle dei calabresi. Che dite? È diventata troppo invasiva? Ma questi sono fatti lontani e dimenticati, sono in Calabria.

Damnatio memoriae.

Vennero le guerre coloniali e quelle mondiali, tutte come sempre decise da altri per altri.

La metà dei calabresi, quelli non costretti ad emigrare e perciò rimasti, vi vennero mandati: il loro sangue, in queste circostanze (ma non allarghiamoci troppo, però, eh?), è uguale a quello di tutti gli altri.

Nel secondo dopoguerra, assieme alla seconda massiccia emigrazione, venne un attimo di respiro con la riforma agraria e la Cassa per il Mezzogiorno. Quest’ultima però, prima di essere preda degli appetiti del resto del Paese, fu virtuosa solo per un ventennio, il tempo strettamente necessario perché i calabresi dotassero di pavimentazione le strade dei loro borghi e di scuole le loro comunità, di acqua le loro fontane e di laghi i paesaggi silani (bè, alcuni laghi ce li avevano già regalati) e di elettricità …. cosa? …. le loro industrie? … no, non esageriamo. Bè, le industrie in generale, non so quali. So solo che l’oro bianco calabrese, come lo chiamavano, arrivava a Bressanone.

E venne il tempo in cui la Calabria fu Regione d’Europa.

E poi fu Bossi, e Miglio, e Salvini, e Borghezio, e Calderoli, e Castelli ….. Fine della storia.

La legge Calderoli, la spesa storica, i livelli di prestazione: i soldi solo a nord, o quasi (non è uno scherzo: dai conti ufficiali - Ragioneria Generale dello Stato e Corte dei Conti - appare la dimensione del problema, 800 miliardi in un quindicennio circa dati in meno al Mezzogiorno, tolti da lì e dati al nord.

E di nuovo, per la terza volta, l’emigrazione. Ma questa volta sono i cervelli ad emigrare: li prepariamo e li regaliamo agli altri. Per la verità gli mandiamo pure i malati: con il cosiddetto Piano di Rientro ci è stata imposta la chiusura di una ventina di ospedali: è così che alimentiamo la sanità al nord, come forse secondo Augias e gli altri è giusto che sia.

La Calabria è definitivamente dimenticata nel suo cantuccio, periferia al centro del Mediterraneo, quello stesso mare delle civiltà mediterranee, diventato nel frattempo luogo e strumento di morte di emigranti nostri epigoni.

La Calabria, come sempre nell’antichità gloriosa, ha cercato di accoglierli, ma è stata processata e condannata per questo. Che voleva, di nuovo, come nell’antichità, porsi a modello del mondo? Con Riace? Ma che, scherziamo?

Damnatio memoriae.

Non se ne deve mai parlare, della Calabria, e non se ne parla, tranquilli. (Bè, salvo in tre casi, assolutamente rigorosi: a),‘ndrangheta, b), fatti di cronaca, e c), mala qualcosa - sanità, governo locale, amministrazione, … fate voi -).

Ma tutto questo, è tutta e solo colpa degli altri?

Ovvio che no, anche se gli altri, ammettiamolo, ce l’hanno proprio messa tutta. Ma una cosa è certa: siamo deboli, e la debolezza porta con sé l’incapacità.

Ma è pure vero che è sui deboli che si accaniscono i forti (bè, almeno quelli che tali si dicono). E quando lo sei, debole, vedi più l’accanimento dei forti che non la tua incapacità.

Lo so che è solo una parte della storia, ma di cosa volete che io parli, della mia incapacità o della prepotenza degli altri? Bravo, la seconda c’hai detto.

Oggi c’è la Next Generation EU. Che non sia un’altra Cassa per il Mezzogiorno (la prima, quella del ventennio buono, non la seconda)?

Il fatto è che, come sempre da più di duemila anni, le decisioni che ci riguardano vengono prese altrove, ma questa volta c’è l’aggravante della nostra connivenza perché, avendone avuta la possibilità, non abbiamo nemmeno cercato di intervenire. Chi avrebbe dovuto non ha mandato manco uno straccio di piano strategico, e nemmeno ha puntato i piedi, hai visto mai?

Che dite, ce la vogliamo fare, da soli e senza governo, a prendere questo treno? Una volta, negli anni ’50 – ’60, ce l’abbiamo fatta a fare le scuole. Forza, ché ce la possiamo fare anche stavolta, a dispetto di chi si meraviglia.

Ho capito, non ce lo vorrebbero lasciar prendere, questo treno, perché se no chi la paga la Sanità al nord e la spesa storica? E le altre infrastrutture, e le pedemontane, e le varianti? E gli asili e la spesa sociale a dire basta?

Ma noi non eravamo famosi per la testa dura?

Abbiamo un filo conduttore dai tempi delle antiche glorie ai nostri: la cultura. Prolunghiamolo.

Vediamo di non perdere la cultura dei nostri padri e allo stesso tempo di promuovere quella dei nostri figli, la “next generation”, ve lo dico meglio, la prossima generazione.

Le parole chiave sono: informatizzazione e ambiente. Assieme al sud dovrebbero essere tra gli assi portanti del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Non perdiamoli, ché se no ce li prendono tutti.

Come cantava Iannacci, prendiamo il treno per non esser da meno

Domenico Gimigliano

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