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A cura di Giuseppe Giraldi

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L’EPIDEMIA CI RIPORTA ALLA MEMORIA IL TEMPO DEL PANE FATTO IN CASA

Posted On Venerdì, 20 Marzo 2020 17:12

di Giuseppe Giraldi -  

Erano giorni che a casa mia si parlava di conoscenti che in questo periodo fanno il pane in casa. 

E così, un po’ alla volta, io mia moglie e mia figlia, abbiamo maturato l’idea di provarci anche noi. La cosa mi ha caricato addosso una certa emozione, perché alla mente mi sono tornati i giorni della mia infanzia quando, soltanto mezzo secolo fa, in ogni podere delle nostre campagne, uno degli edifici più importanti era il forno a legna per cuocere il pane.

Non era piccolo come quelli che qualcuno, ai giorni nostri e per pura passione, fa installare, a volte costruito ma per lo più prefabbricato, nei pressi della propria villetta. Il forno nel podere era un edificio importante, con una grande tettoia prospiciente la bocca dalla quale si infornava.

Ricordo che a casa dei miei nonni già la sera prima si incominciava a lavorare per fare il pane. Perché bisognava farne tanto quanto potesse bastare per almeno un mese e per una dozzina di persone, più una manciata di marmocchi.

Io ero tra questi e osservavo attento, ma in disparte, quel che i grandi facevano. La nonna e le sue tre figlie più grandi, le mamme di noi bambini, la sera prima del giorno che si accendeva il forno, già preparavano l’impasto in una grossa madia di legno, vi versavano quasi un sacco di farina e poi incominciavano a impastarla con acqua, mischiandoci dentro anche il lievito che era stato conservato dalla volta precedente, reidratato e ripristinato sin dal giorno prima.

Il lievito rinnovato avrebbe fatto lievitare l’intero impasto della madia e da quello se ne sarebbe poi estratto un pezzetto da conservare come lievito per la volta successiva. La nonna la chiamava “levatina” e dopo che tutti gli ingredienti erano pronti nella madia, si tirava su le maniche, lei era un donnone, e con le mani incominciava ad impastare, rivoltando più e più volte la farina che lentamente incominciava ad amalgamarsi grazie all’acqua che, piano piano, veniva versata da una delle figlie nell’impasto.

Le mani della nonna, in quel movimento di rivoltamento della farina prima e dell’impasto dopo, sembravano le pale di una macchina impastatrice. Mentre faceva questo lavoro, recitava l’AVEMARIA e tutti i presenti appresso a lei.

Il lavoro era lungo perché bisognava continuare ad amalgamare l’impasto e quello era il compito delle figlie che a turno, una alla volta, affondavano i loro pugni in quel composto bianco e morbido che sembrava cerapongo.

Dopo una mezzora buona di quella lavorazione a pugni chiusi, l’impasto veniva lasciato lievitare per tutta la notte, nella madia chiusa da un panno umido, coperto e protetto da coperte che lo tenevano al calduccio. La mattina dopo, la sorpresa di noi bambini era vedere che quell’impasto era cresciuto di volume al punto da riempire tutta la madia. La nonna, iniziando a preparare le pagnotte da infornare, ci raccontava che durante la notte era venuta la Madonna e aveva soffiato dentro l’impasto per farlo gonfiare, perché ci voleva bene e voleva che i bambini mangiassero più pane.

Fatte le pagnotte le metteva su una tavola e le copriva di nuovo con le coperte, sotto le quali metteva anche delle palline piccoline fatte con lo stesso impasto del pane. Dopo una mezz'oretta, tirava fuori una delle palline da sotto le coperte e la immergeva in un bicchiere di vetro pieno d’acqua; se non risaliva in superficie bisognava aspettare ancora prima di infornare. La prima non risaliva mai. Poi, a distanza di 15 minuti riprovava con le altre palline e quando una risaliva alla superficie del bicchiere, si poteva infornare.

Nel frattempo il nonno aveva acceso il fuoco nel forno con delle frasche vecchie che venivano conservate proprio per essere usate in questa occasione. Continuava a mettere fascine finché i mattoni con cui era fatta la volta del forno non diventavano bianchi; quando questo accadeva, scopava la brace in un angolino del forno e vicino alla bocca, ne puliva il fondo con uno straccio umido e poi dava una voce alla moglie per avvisare che era pronto.

Erano talmente sincronizzati che quando il nonno era pronto, anche la nonna dava il benestare ad infornare e le figlie portavano sotto la tettoia del forno il tavolaccio con le pagnotte ben lievitate.

Il nonno le scopriva una alla volta, vi faceva sopra dei segni con la “rasula”, metteva la pagnotta sulla pala di legno, la infornava con un movimento fluido e con un colpo deciso la faceva scivolare nel forno. L’operazione veniva ripetuta fino a riempire la base del forno poi il nonno lo richiudeva ermeticamente. Oggi non so dire quanto tempo lasciasse cuocere le pagnotte, ma quando riapriva la bocca del forno, l’aria si riempiva di un profumo di pane così penetrante che lo ricordo ancora e che ogni tanto, per risentirlo, vado al Panificio Russo di Saporito.

Ma anche il sapore del pane aveva qualcosa di particolare, mangiato con un pezzo di formaggio pecorino fresco, rimane uno dei miei piaceri di gola preferiti.

Ieri dopo sessant’anni di vita, in casa mia ho riprovato il piacere di fare il pane in casa. L’emozione c’era ed è stato l’unico ingrediente che ci ho messo io. Ho partecipato volentieri, ma hanno fatto tutto mia moglie e mia figlia. Hanno pesato tutti gli ingredienti, farina, acqua, sale, lievito e hanno messo tutto in una specie di piccola impastatrice, con i tempi prefissati. Dopo un po è uscito un panetto impastato e l’hanno messo a riposo per un’ora, al calduccio sotto un paio di coperte. In effetti è lievitato fino a triplicare il suo volume e l’hanno frazionato fino a fare dei panini che poi hanno rimesso sotto le coperte per un’altra mezzora. Poi li hanno infornati, ma prima io ci ho fatto sopra dei tagli con un coltello come faceva il nonno con la "rasula". Dopo venti minuti i panini erano cotti e li abbiamo levati dal forno belli caldi. Molto buoni, ne ho mangiato uno con un po’ di formaggio. Ottimo sapore, ma il profumo del pane della nonna non l’ho sentito.

Ci riproveremo e miglioreremo di sicuro, useremo il lievito naturale al posto del lievito di birra e selezioneremo meglio la farina, ma in definitiva, lo rifaremo perché ci fa ritrovare attorno ad un’idea bella. Si chiama: Fare Famiglia.

Giuseppe Giraldi

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